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Sardegna, governo israeliano, popolo palestinese e responsabilità nell’area euromediterraea e mediorientale.

 

 

 

 

 

In questo contributo vengono analizzati tre diversi elementi di cui è possibile leggere, in modo congiunto o separato, le varie sezioni.

In ordine di trattazione:

  1. Sardegna, posizione strategica militare e scenari istituzionali.
  2. Origine storico politica dello Stato ebraico. Nozione di genocidio e fenomenologia.
  3. “Due popoli due stati”. Il problema istituzionale e l’impasse dell’Unione europea.

 

In calce si trovano le fonti per ulteriori approfondimenti.

 

  1. Sardegna, posizione strategica militare e scenari istituzionali.

Siamo in un cortile di pace ma fuori da queste nostre mura d’acqua strepitano le bombe.

Sentiamo vicino e ovattato il caos fuori dalla nostra fortunata e non scontata tranquillità.

Per prossimità non scappiamo, non spariamo. Ma armiamo le nostre parole.

Il conflitto ribolle dentro il nostro petto. Gorgoglia, strepita, sbuffa pronto a eruttare.

Contro qualcuno, contro qualcosa. Contro tutto, purché contro.

Per principio: il nostro, l’unico giusto.

Il linguaggio si fa strumento di violenza. Clava da brandire anche nell’aria sporca di polvere e terra.

Nella contemporaneità le piazze occidentali sono divenute luogo di sfogo per persone che protestano per se stesse. Il reale è solo virtuale ma il virtuale non è quasi mai reale. In questa distorsione di piani, di ruoli, gli istinti più bassi sono espettorati senza filtro, senza contenimento, senza grazia né appello, in un pericoloso mantra del “non so quindi giudico, non rifletto quindi agisco”.

Consapevoli, o forse no, che l’indignazione egoriferita non ha il minimo peso concreto rispetto alla soluzione di un vero conflitto bellico, alla distrazione di risorse nella spesa pubblica e reimmesse per punti percentuali destinati a beneficio di difesa e armamenti.

Nulla, nessun alterco e rissa smuove o modifica ciò che avviene lungo le sponde opposte dello stesso mare che bagna sia chi gode di una pace conquistata da altri, sia chi opprime civili inermi in uno spazio vitale sempre più angusto come un serpente tra le spire con un topolino.

La Sardegna non conta niente. Galleggia e non affonda per questioni tettoniche, non per merito di chi ci vive e di chi ne ha le sorti. I Sardi non esistono perché le loro grida sono meno di un sussurro. Il flebile tentativo di sentirsi parte di qualcosa, mentre il mare li tiene lontani dalla rilevanza con il resto d’Europa e della geopolitica è tenero e patetico.

Eppure la Sardegna, i Sardi, hanno una responsabilità anche in quello che accade nel Mediterraneo e oltre.

Cosa c’entra la Sardegna con il governo israeliano, il popolo palestinese, la crisi del Medio Oriente?

Perché un’Isola marginale di uno Stato a sua volta periferico è cruciale per una nuova postura degli equilibri multipolari?

La Sardegna non c’entra nulla, si penserà. Invece l’Isola è piattaforma strategica di questi giochi di guerra Negli anni Quaranta del Novecento fu la vittima sacrificale delle bombe degli Alleati per distrarre le potenze dell’Asse dallo sbarco in Sicilia. Ottant’anni dopo è il deposito degli armamenti e teatro dell’addestramento delle truppe Nato. Sede di oltre il 60% delle basi e poligoni militari rispetto al resto d’Italia: 35.000 ettari sottratti, consumati, snaturati e i cui frutti benevoli di terra e acque non potranno mai più essere raccolti.

Meno del 2,5% della popolazione italiana vive su quest’isola con poco più di 1 milione e seicentomila abitanti.

Israela, circa 10 milioni di persone concentrate su una superficie poco più piccola della Sardegna (22.000 kmq la prima, circa 24.000 kmq la seconda) deve molto all’Isola.

Capo Frasca, Teulada, Quirra, Decimomannu.

La Terza guerra mondiale non ci sarà ma, se ci fosse, quale luogo verrebbe messo sotto attenzione?

Israele ha tanti nemici e anche per questo è uno dei luoghi più militarizzati al Mondo.

La Sardegna è una delle regioni più militarizzate dell’Unione europea, curiosamente nata per costruire pace e prosperità: da chi deve difendersi? Da se stessa? Dai circa 20 milioni di turisti che transitano nella stagione estiva per alternare il settore terziario alle esercitazioni militari che si svolgono nel resto dell’anno, senza altre prospettive di sviluppo?

Sono domande retoriche alle quali è il lettore, eventualmente, a poter valutare quali risposte darsi.

Dagli accordi di mutua sicurezza siglati dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, la Sardegna è divenuta oggetto di contropartita per le super potenze: dai primi anni Cinquanta, il demanio militare sul territorio ha determinato la possibilità di riunire eserciti, sperimentare armi, in cambio di indennizzi che saltuariamente vengono destinati agli enti locali delle aree utilizzate.

Nonostante l’istituzione del Comitato Misto Paritetico per le Servitù Militari (Co.Mi.Pa. con legge 898 del 1976), la Regione Sardegna e i suoi vertici faticano a trovare ancora oggi nei gangli dello Stato italiano e specificamente nel ramo della Difesa una interlocuzione per una rinegoziazione puntuale, anche rispetto alla proposta di legge 1887 del 2025 che sposta ulteriormente il baricentro dell’interesse della “sicurezza nazionale” a detrimento della tutela dell’ambiente e del paesaggio con potenziali e nuove catastrofiche conseguenze per la salvaguardia di bellezze considerate un tempo imperiture.

Le istituzioni sarde hanno armi formali spuntate per potersi opporre a priori alle scelte dello Stato centrale, figlie a loro volta di equilibri estranei.

Si usino le competenze statutarie per ridurre il rischio rappresentato oggi dalla considerazione di fondo che la Sardegna è sacrificabile per un’altra guerra che non vuole. L’Autonomia Speciale non è un feticcio.

Si applichino gli strumenti di negoziazione necessari a rimuovere i muri che separano le zone in mano alle forze militari da quelle civili, anche ricorrendo alle sedi istituzionali sovranazionali, a partire dalle sedi europee dove la Sardegna è sistematicamente assente o sotto rappresentata.

Si formalizzi sui tavoli interistituzionali multilivello la richiesta di dismissione, chiusura, bonifica e riconversione delle aree deprivate della loro destinazione naturale e primaria.

Le istituzioni sarde pronuncino con forza parole di pace.

 

  1. Origine storico politica dello Stato ebraico. Nozione di genocidio e fenomenologia.

Nella seconda metà dell’Ottocento, Theodor Herzl, tra i principali ispiratori del Sionismo e della politica del grande ritorno, preconizza nel proprio manifesto “Lo stato ebraico” (1896) la realizzazione di un Paese identificato come Stato per il popolo ebraico, intendendo come popolo un insieme di individui stretti in comunità sparpagliate per il Mondo in seguito a millenni di persecuzioni e diaspore, finalmente riuniti sotto un’unica bandiera.

Il problema che evidenzia lo stesso Herzl riguarda non il “come” quanto piuttosto il “dove” realizzare tale progetto. Pochi sanno che le porzioni territoriali su cui ricadono le attenzioni e le riflessioni in quel frangente sono due, ben distanti tra loro: la Palestina (terra da tempo sotto il giogo dell’Impero Britannico dopo l’avvicendamento con l’Impero Ottomano, incastonata in un’area di influenza in cui l’altra potenza coloniale vicina è la Francia post napoleonica) e l’Argentina: terra particolarmente gradita poiché sottopopolata in rapporto alla sua estensione. Ricca di risorse naturali e il cui governo nazionale coltiva spazi di interlocuzione con la comunità ebraica presente e impegnata nel settore finanziario, come nei più consolidati cliché.

La possibilità di acquistare una porzione di Sud America è stata concretamente valutata. Il pensiero sionista tuttavia predilige la Palestina in quanto terra d’origine e pertanto preferita, simbolicamente, nonostante fosse territorio ampiamente abitato da popolazioni storicamente radicate e conviventi dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.

I decenni successivi agli scritti di Herzl, la Dichiarazione di Balfour (nella quale il Regno Unito acconsente a un “focolare nazionale ebraico” nel 1917), l’Olocausto e la partizione in due Stati (uno ebraico e uno arabo) sono da intendersi quindi come elementi fasici ed epocali all’interno di un processo scandibile e ascrivibile a un segmento storico assai ampio, tragico e complesso che, per molti aspetti, produce strascichi ancora adesso.

Sarebbe potuta andare diversamente e magari configurarsi una formazione statuale in una porzione dell’attuale Argentina? Sì. Potrebbe darsi che la collocazione di un Paese così atipico rispetto a quelli circostanti sia stato anche incoraggiato, supportato dagli Stati Uniti per frapporre un ostacolo alla costruzione di un modello istituzionale unificato dei Paesi Arabi in quella regione, avendo così contestualmente un avamposto occidentale nell’area Medio-Orientale? Non è ufficialmente acclarato, ma è tuttavia fattuale e deducibile senza paralogismi, considerata l’asimmetria geopolitica che si presenta ancora oggi.

In questo scritto non ci occupiamo delle successive guerre cominciate dopo la Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele nel 1948 né si intende perorare una causa di parte in maniera pregiudiziale.

L’elefante nella stanza è ciò che il governo israeliano capeggiato da Netanyahu intanto compie simultaneamente sui vari fronti, a partire da quello più doloroso: Gaza e ciò che resta dei territori palestinesi.

Poiché si è detto che in questa sede non si tratteranno i conflitti arabo-israeliani, né approfondiremo termini che rievocano sciagure umane quali Macba o Intifada, si provi ad approcciare allo spinoso tema della nozione di genocidio “sì o no” guardando la questione da un’altra angolazione.

Genocidio è parola di recente conio, sebbene la sua matrice etimologica ci rivela che si tratti della uccisione di un popolo/stirpe. A ben vedere, come fattispecie viene applicata in relazione alla pianificazione sistemica dello sterminio degli Ebrei ad opera del Terzo Reich (il regime nazista e la complicità del regime fascista). I parametri oggettivi per riconoscere un genocidio da uno sterminio di massa senza connotazione etnica o nazionale però sono stati spesso oggetto di contestazione, di obiezione, di mistificazione o confutazione posticcia, frutto di becere propaganda e trattativa. Nel corso della Storia sono stati innumerevoli e, a seconda della retorica imperante, tuttora soggetti ad assoluzioni postume, a riscrittura delle fonti: dalla conquista del West nord americano al Rwanda, passando per gli Armeni la macabra lista è tremendamente lunga e impossibile da completare.

Il dato incontrovertibile però che permette di ascrivere questa fattispecie (genocidio) senza necessità di ulteriori e spregevoli sofismi è che si tratta di pianificazione (ossia, premeditazione, volontarietà) di eliminare unilateralmente un gruppo in qualche modo riconoscibile di persone e che costoro siano vittime che in alcun modo esprimano una forma di resistenza o di opposizione organizzata.

Si azzardi quindi una schematizzazione: se provi a resistere o a reagire non è più genocidio ma si scivola lungo il crinale della legittima difesa di Stato che, nonostante gli interventi delle organizzazioni internazionali imparziali, derubrica le proprie azioni come danni collaterali a una guerra esistenziale.

Se c’è reciprocità mirata a sopraffare una popolazione con caratteristiche comuni, al massimo è pulizia etnica. Se, al netto di evidenti sproporzioni di disponibilità di risorse, armamenti, strutture organizzative, un gruppo di persone si oppone con violenza si tratta di terrorismo oppure di conflitto bellico e quindi, tornando alla qualificazione dello sterminio di cui sopra, tuttalpiù, in violazione di Convenzioni a tutela dei diritti umani, sono “solo” crimini di guerra.

Si badi, queste non sono evidentemente posizioni dello scrivente ma una sintesi di quello che è diventato il duello tra tifoserie che disquisiscono a distanza di sicurezza, mentre sulle coste opposte di quello stesso mare un esercito cinge un fazzoletto di terra dove la popolazione civile viene azzerata, scudo umano di Hamas – vero -, ma le cui sorti sono appese a un destino cinico e baro e, apparentemente, immutevole.

Quello stesso mare che è già, occorre ricordarlo, un cimitero liquido di migranti che scappano da altri conflitti: cinquantasei guerre in tutto il pianeta in corso, con un incremento del 40% in più solo dal 2020 al 2023.

 

  1. “Due popoli due stati”. Il problema istituzionale e l’impasse dell’Unione europea.

Lo Stato di Israele viene al giorno d’oggi citato anche come modello di democrazia. Ci si permetta quindi una precisazione. Lo Stato di Israele non è una democrazia secondo i parametri che, ereditati dalla letteratura classica, hanno poi assunto una connotazione scientifica riconoscibile in epoca moderna e argomentata da illustri Autori.

Forma di Stato e di governo di Israele assomigliano a quelle di gran parte dei Paesi europei (elezioni, separazione dei poteri, bilanciamento di pesi e contrappesi, per es.) ma le differenze che persistono sono elementi talmente cruciali da impedire a Israele e ad altri di essere ascritti a un modello democratico puro, monolitico. Si pensi al principio di laicità che appare un tratto di particolare complessità rispetto al rapporto tra potere temporale e spirituale, oltre al controverso rispetto dei diritti fondamentali.

Israele è, tecnicamente, non una democrazia in senso canonico, bensì una “etnocrazia”: esistono, cioè, delle differenze nette e marcate all’interno della società con preclusioni per accesso a cariche e ruoli in specifici ambiti a porzioni di cittadini. Questo è stato, tra gli altri, uno dei limiti ai tentativi, spesso timidi, talvolta più spavaldi, di introdurre Israele in un percorso formale di adesione o accesso ad organizzazioni internazionali ed enti di collegamento tra Stati come l’Unione europea.

L’opinione pubblica europea si affretta a prendere posto sul tema all’ordine del giorno dell’agenda mass mediatica e ridursi al solito clivage che riflette la proverbiale unità nella diversità precedente all’ennesimo stallo istituzionale che si consuma a Bruxelles per mano dei singoli Paesi membri. L’autoassoluzione per le coscienze dei capi di governo e istituzioni sovranazionali è concludere ogni manifestazione, ogni intervento, ogni documento condiviso, con la solenne e programmatica frase: “due popoli, due Stati”.

Per quanto si voglia cercare una spiegazione di merito a questo slogan, risulta difficile intravederne forma e sostanza attuativa.

La stessa Unione europea peraltro è nata con questo escamotage negli anni Cinquanta sulle ceneri di guerre fratricide ma, se compariamo la formula “due popoli due Stati” con realtà istituzionali complesse fatichiamo a trovare soluzioni nitide: si tratterebbe di un modello confederale? Si penserebbe a un sistema misto con istituzioni separate e altre in cogestione, alternate secondo un principio di rotazione basato sulla demografia o di rappresentatività delle minoranze? Si fa forse riferimento, tra le righe, a quanto avviene per garantire la convivenza in Belgio, in alcuni Stati dell’ex-Jugoslavia, in Spagna con le Comunità autonome? Esiste forse un artifizio istituzionale inedito, calibrato su misura per quest’area?

Oggi, per quanto suoni una evidente forzatura, i territori palestinesi come la Striscia di Gaza e la Cisgiordania sono delle enclave che si fatica a ricondurre a degli embrioni di uno Stato palestinese.

Chi dovrebbe decidere quale veste dare a dei popoli che vedono nella diversità l’elemento ontologico della loro incompatibilità?

Immaginare che si trovi una formula istituzionale idonea e in poco tempo per superare un tale impasse è quantomeno irragionevole considerato che, nel frattempo, i morti continuano a cadere ed è in corso anche una guerra di numeri, di statistiche. Come se si potesse vincere anche in questo campo, alterando il bilancio delle responsabilità di chi agisce indisturbato da un lato e di chi assiste immobile dall’altro.

© Marco Deplano 2025

 

Per approfondimenti:

 

Immagone dell’area euro-mediterranea, licenza creative commons