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Sogno o son destro?

Ci sarebbero tanti modi più corretti per dirlo l’uno all’altro e con franchezza: non ci sopportiamo.
Ci basta lasciare l’Isola per sentire un amore viscerale per i nostri connazionali sardi. Una volta rientrati torniamo ad essere ciò che siamo: diffidenti e livorosi verso il prossimo nostro.
E’ un problema di statistica e di logistica: siamo pochi, abituati ad abitare un territorio isolato e molto esteso. E’ quindi frequente sentire l’eco del nostro ego rimbombare nel silenzio dei nostri meravigliosi spazi. Però, è inutile. Specialmente da un punto di vista politico. Si sbandierano degli slogan, venduti a prezzi cari e come gli unici possibili. E chi non li capisce, o non li accetta, chi si crepet.
Proviamo a vederla in un’altra ottica:
il Sardismo, oggigiorno, vuol dire tutto e nulla. Su di esso sono state fatte talmente tante speculazioni in questi decenni, da diventare una parola passe-partout: svilita del proprio significante. Esautorata della propria potenza. E pronunciata anche da chi usa i concetti di sovranità e autodeterminazione senza la minima cognizione di causa, solo per ricostruire un proprio imene politico.
Delineiamo il quadro: Sardegna Possibile era una coalizione con anime diverse. E’ stata una bella esperienza elettorale, che si è avvitata su una visione personalistica e carismatica del “partito-non partito”. Cosa ne è rimasto?
Progres, cuore pulsante di quell’idea e frutto di una precedente scissione, incarna in sé la limitatezza di chi si professa indipendentista ad ogni costo: l’indipendenza di una Nazione senza Stato come quella sarda può essere solo un processo graduale e consapevole, non un “progetto” a termine e non emendabile. Altrimenti il rischio è quello di passare per dei meri eversivi. Questo non conviene a nessuno: né ad aspiranti martiri della causa sarda (vedi Predu Frantziscu Devias, il cui partito si è recentemente sciolto per riagglomerarsi all’interno di un soggetto più ampio), e non serve neppure a chi intravede uno spiraglio per fare crescere l’autocoscienza del popolo sardo all’interno di uno stato di diritto.
C’è poi un aspetto lessicale molto stringente: Franciscu Sedda nelle recenti dichiarazioni a proposito di differenze tra sinistra sarda ed italiana omette, forse volutamente, di parlare del contributo che il Partito dei Sardi può dare per la costruzione di un unico partito nazionale sardo che sia espressamente di sinistra, laico, progressista. Non usare ognuna di queste parole, significa rinunciare ad importanti fette della propria identità, seppur composita, e si presta ad interpretazioni certo tendenziose: come se un partito nazionale sardo non schierato fino in fondo potesse ospitare opportunisti, trasformisti, e collusi con poteri forti della matrice più varia.
Analizzare questo Pd Sardegna, federabile e mai federato, e in perenne rapporto di dipendenza e subalternità rispetto alla segreteria centralista romana bè, no, non vale la pena.
Sul nuovo fronte, su quello della corrente divenuta partito su scala italiana (Possibile) e dell’emblematico contenitore affine #cisiamo, affiora un gigantesco punto interrogativo: che qualcuno spieghi nel merito che senso abbia erigere l’ennesima cattedrale nel deserto, succursale di un partito che ha testa e gambe altrove, come quello di Civati e compagnia.
Nel mondo ci sono assonanze tra coloro che si battono per una società più equa, che metta al centro le persone e difenda i diritti civili su dimensione globale e contro il neoliberismo. Certamente, da un punto di vista idealistico, parlare di sogni è fondamentale. Specie a sinistra, dove senza una visione chiara degli obiettivi, si viene tagliati fuori o peggio, si viene apostrofati come impuri, e di destra.
Qualche sardaccio dalla lingua biforcuta potrebbe però insinuare che questo esperimento in nuce sia un escamotage frutto della paura di sparire dal panorama politico “locale” –come dicono loro- e che sia un contenitore stracolmo di luoghi comuni ma privo di sostanza, votato all’inconsistenza e alla preservazione dei singoli.
Chi scrive non ha la verità in tasca e non vuole né trasformare gli avversari in nemici, meno che mai troncare i legami con gli amici. Al contrario, proviamo a stimolare il dibattito con una sonora provocazione.
Per la costruzione di un partito nazionale sardo di sinistra laico e progressista occorre intraprendere un cammino che non sia influenzato dall’angoscia di una imminente competizione elettorale. Lavoriamo sui temi per individuare le soluzioni ai problemi della nazione sarda, della propria comunità. Non vi viene in mente nulla? Trasporti, sanità, istruzione, lingua e cultura, agricoltura e pastorizia, servitù militari, energia, alta tecnologia, ambiente, rapporti istituzionali: macro aree su cui si dibatte sporadicamente e su cui tendiamo all’inconcludenza cronica. A Cagliari, a Roma, e a Bruxelles.
E’ vero, per cambiare lo status quo bisogna entrare nelle istituzioni e per farlo occorre avere rilevanza politica che si traduca in consenso. Finora siamo stati soprattutto battitori liberi, chi con i propri bacini di voti frutto sovente di clientele, chi con le proprie enclaves incapaci di dialogare col sardo medio.
L’idea di un partito nazionale sardo di sinistra è molto più alta della politica spicciola, e potrebbe volerci molto tempo per ottenere conquiste durature. Oggi però, al di là delle antipatie reciproche, occorre pensare alla Sardegna che verrà con un po’ di raffinatezza morale. Cambiare la legge elettorale vigente nell’Isola, riaprire il cantiere dello Statuto RAS superando l’eterna fase degli annunci, intervenire subito sulla legge con cui il parlamento italiano quasi quarant’anni fa ha delegittimato il popolo sardo attraverso il perverso meccanismo del collegio unico con la Sicilia per eleggere i nostri europarlamentari a Strasburgo.
Parliamo di continuità territoriale, del fatto che in nessuna delle fonti di diritto vigenti alla Sardegna venga riconosciuto lo status di realtà insulare? O ci occupiamo del costo dell’energia che fa di noi una realtà antieconomica rispetto a qualsiasi altra area continentale? Dell’eterno bivio tra il diritto al lavoro e alla salute, dello spopolamento delle aree dell’interno e dell’emorragia di capitale umano che ogni anno impoverisce la Sardegna dei suoi figli, destinati al non ritorno.
Dovremmo smettere di odiarci e lavorare sui temi che ci accomunano, accorciando le distanze. I frutti di questo Beranu li raccoglierà chi verrà dopo di noi. In bon’ora.

Tratto da Suberanu